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Fra
i contemporanei di Puccini che scrissero rendendo noti aspetti
"intimi" della sua vita vi è anche tale
Don Pietro Panichelli con un libro, alquanto ingenuo ma
non privo di freschezza e sincerità dal titolo Il
"pretino" di Giacomo Puccini racconta... (Pisa
1940). Nel libro troviamo lettere e testimonianze cui hanno
fatto riferimento nelle loro ponderose monografie i più
noti studiosi pucciniani così che il "pretino",
come Puccini lo aveva soprannominato, è riuscito,
almeno per le vicende relative alla composizione di Tosca,
a legare, anche se in modo assai secondario, il suo nome
a quello del suo adorato "amico". Don Panichelli,
nativo di Pietrasanta, era un giovane monaco dell'ordine
dei Domenicani che prestava servizio a Roma nella Chiesa
di Santa Maria in Via Lata, a duecento metri dal celebre
negozio di Ricordi in Via del Corso, dirimpetto al Caffè
Aragno, luogo di ritrovo di musicisti e musicofili. Don
Pietro, amico del leggendario commesso Orlando Virgili,
suo conterraneo, passava più tempo da Ricordi che
nella sua chiesa essendo un grande appassionato di musica,
non solo di quella sacra (dirigeva un coro di gregoriano)
ma soprattutto di quella operistica. Quando Puccini veniva
a Roma uno dei suoi punti di riferimento era proprio il
negozio di Ricordi i cui dipendenti dovevano mettersi a
sua disposizione per venire incontro alle sue esigenze.
Così fu facile che proprio in quel negozio avvenne
lo "storico" incontro, non si sa quanto premeditato,
fra il monaco musicofilo ed il celebre maestro, a Roma per
una ripresa di Bohème nel novembre 1897. «Vidi
entrare un signore» racconta Don Panichelli «alto,
giovane, elegantissimo, col bavero del cappotto rialzato
e abbottonato al collo, colla sigaretta in bocca e un'elegante
bombetta in capo secondo la moda di quei tempi». Saputo
che il signore elegante era Puccini Don Pietro pregò
insistentemente Virgili che lo presentasse ed il commesso
esaudì il suo desiderio: «Maestro, le presento
il famoso Don Pietro Panichelli, toscano come noi e conosciuto
da mezza Roma perchè bazzica più i teatri
che non le chiese, tanto è pazzo per la musica e
per i musicisti». Questa presentazione, alquanto burlesca,
mise di buonumore il maestro e saputo che il prete era di
Pietrasanta paese degli ulivi e dei ponci vicino alla sua
Torre del Lago, i due ebbero modo di intessere una conversazione
su temi quali la caccia alle beccacce, alle folaghe, ai
germani di padule ecc... A ricordo dell'incontro Don Panichelli
si fece autografare una foto di quelle vendute dal negozio
con la dedica e la data: 29 novembre 1897, una data fatidica
perchè in quello stesso giorno, ventisette anni dopo,
Puccini morirà a Bruxelles.
Eravamo
nel dicembre del 1897, neanche un mese cioè dalla
mia preziosa conoscenza col Maestro. Io a Roma e lui a Milano
o a Torre del Lago. Incominciò subito tra noi due
una nutrita corrispondenza epistolare, soprattutto su schiarimenti
e informazioni che riguardavano Tosca...
Così
racconta Panichelli. Peccato però che di questa «nutrita
corrispondenza epistolare» non sia rimasta traccia
della richiesta fatta da Puccini, di cui egli parla, di
trascrivere le note delle campane che si udivano dagli spalti
di Castel Sant'Angelo.
La
prima difficoltà un po' seria fu quella delle campane
che dovevano riprodurre - nel preludio del III atto - l'Ave
Maria dell'alba di Roma. Io ebbi in quel tempo, non dico
la pazienza di Giobbe, che sminuirebbe il mio pensiero,
ma tutto l'entusiasmo di un amico fedele dell'arte pucciniana
per la ricerca dei toni di quelle campane che erano le più
vicine agli spalti di Castel Sant'Angelo. Ne feci una nota
e gliela mandai subito.
Il
povero pretino non riusciva però a trovare la nota
corrispondente al campanone di S. Pietro. Dovette ricorrere
al maestro Meluzzi del Vaticano che aveva fatto ricerche
in proposito, il quale sentenziò che la nota era
un mi naturale sotto il rigo. Di questo informò subito
Puccini.
Caro
Maestro. Eureka! Ho trovato. Il maestro Meluzzi ha potuto
assicurarmi che quel tono squarciato, indistinto, confuso,
inafferrabile del campanone di San Pietro risponde ad un
"mi" naturale. E mi ha soggiunto che posso scriverlo
a lei sotto la sua responsabilità. Affezionatissimo
Don P. Panichelli.
Puccini
«teneva molto che il canto del Te Deum fosse trasportato
in Tosca con la severità del canto liturgico secondo
il rito prettamente romano» ed ecco che il premuroso
Don Panichelli lo trascrive e glielo spedisce. Il 17 gennaio
1898 Puccini scrive al pretino:
Carissimo
signor Panichelli. La ringrazio dei preziosi ragguagli sullo
scampanio mattutino di Roma e ne terrò calcolo. Anche
il "Te Deum" mi è di grande utilità
per il finale di Tosca. Mi tenga in memoria [...] e si abbia
i saluti più affettuosi del suo Giacomo Puccini.
Nell'agosto
del 1898 arrivò a Panichelli dalla quiete della villa
Mansi di Monsagrati dove Puccini si era ritirato per lavorare
a Tosca la seguente lettera:
Caro
Pretino. Quando Lei mi scrive è sempre per notizie
che mi sono care [...]. Io lavoro a Tosca e sudo dal caldo
e dalle difficoltà che incontro ma che saranno, spero,
superate. Ora desidero un favore: si tratta che al primo
atto (finale) in Chiesa di Sant'Andrea della Valle ha luogo
un Te Deum solenne di festeggiamenti per vittoria d'armi.
Ecco la scena: dalla sagrestia escono l'abate mitrato, il
capitolo, ecc. ecc. in mezzo al popolo che per due ali ne
osserva il passaggio. Sul davanti della scena poi, c'è
un personaggio (il baritono) che monologheggia indipendentemente,
o quasi, da ciò che succede nel fondo. Ora io ho
bisogno di far recitare preci al passaggio dell'abate e
del capitolo. Sia insomma il capitolo o sia il popolo, ho
bisogno di far brontolare con voce sommessa e naturale,
senza intonazione, come sul vero, delle preci-versetti.
L'Ecce sacerdos è troppo imponente per essere mormorato.
So già che non usasi dire né cantare niente
prima di intonare il solenne Te Deum che viene fatto appena
arrivato all'Altar Maggiore, ma ripeto (sarà vero
o no) io vorrei trovare qualcosa da brontolare quando dalla
sagrestia vanno all'Altare, e ciò dal capitolo o
dal popolo. Ma sarebbe meglio quest'ultimo, perchè
più numeroso e perciò più efficace
musicalmente. Indagare, cercare la cosa adatta e inviarmela
subito facendo cosa graditissima al suo aff.mo Giacomo Puccini.
Ed
il "Pretino" racconta:
Cercai di strizzare il mio cervello. Mandai versetti,
preci e giaculatorie che fossero di carattere popolare,
ma questa volta non fui in grado di interepretare il pensiero
del Maestro e... feci fiasco. Cioè non fu veramente
un fiasco, come mi disse lui in seguito. «Tu mi mandasti
dei versi bellissimi e adattissimi per essere messi in bocca
al popolo in quella circostanza, ma io avevo bisogno di
forti accenti fonici perché la voce parlata del popolo
riuscisse ben distinta in mezzo al suono delle campane e
dell'organo. Scelsi perciò da me stesso, sia pure
con logica discutibile: adiutòrium nòstrum
in nòmine Dòmini. Qui fecit coèlum
et terram».
Un
altro merito che Don Panichelli si attribuì è
quello di aver risolto il problema dei quattro versi in
romanesco cantati dal pastorello nel preludio dell'atto
terzo. Puccini scrisse all'amico lucchese Alfredo Vandini,
impiegato al Ministero delle Finanze, suo factotum a Roma.
[Torre
del Lago] 27 settembre 1899 Caro Segretario. [...] Abbiamo
ultimato l'opera! Dillo pure ora [...] Ora ho un piacere
da te: quanti!!! Devi cercare d'un buon poeta romanesco
(Pascarella è in america, peccato). Nell'ultimo atto
ci ho un ragazzo pastore che colle pecore passa (non si
vede, si finge) sotto il castello e canta una canzone villereccia
popolare triste e sentimentale. Dovresti cercare un poeta
romanesco, dunque, che mi facesse sul metro che t'espongo
metro Ho pianto tanto e n'ho fatto una boccia Perché
nel core io non t'ho fatto breccia O fiori belli, che state
al sol, chinate il capo, passa il mio amor. Ciao e scrivimi
quando hai trovato. Scusa e grazie.
Ma
Vandini chiese aiuto a Don Panichelli ed il pretino trovò
la soluzione. Io dissi a Vandini: «Il poeta ce l'ho
io.
E' il mio amico Giggi Zanazzo fondatore del Rugantino
e direttore della Biblioteca dell'Istruzione Pubblica. L'ho
a portata di mano perchè la biblioteca è annessa
al mio convento. Si prende un appuntamento e si va [...]
Luigi Zanazzo era a quei tempi ciò che sarebbe oggi,
nelle dovute proporzioni, Trilussa. La sera stessa del nostro
colloquio mi fece recapitare in convento questi versi deliziosi:
Io de sospiri te ne manno tanti Peš quante foje smoveno
li venti: Tu me disprezzi, io me ciaccoro, lampena d'oro
me fai morì. Li mandammo subito al Maestro Puccini
il quale rimase addirittura entusiasmato di questo ritornello
che trovò di suo gusto e che si canta ormai in tutto
il mondo.
In
realtà, come è documentato nei Carteggi Pucciniani
a cura di Eugenio Gara (Ricordi, 1958) non andò tutto
così liscio per le eccessive pretese economiche di
Zanazzo che chiedeva addirittura una percentuale sui diritti
d'autore di Tosca. «Diritti d'autore non è
il caso» rispose perentorio Puccini «la poesia
romanesca non verrà sul libretto, sarà solo
sulla musica. Se il poeta ha pretese non se ne farà
nulla, farò fare dai miei» ovviamente intendeva
Illica e Giacosa. Puccini aveva da chiedere ancora due cose
al suo pretino: voleva sapere con certezza l'ordine da seguire
nella processione del Te Deum e quale era il costume delle
guardie svizzere di allora. Don Panichelli si diede subito
da fare.
Per
la prima ricerca avevo a portata di mano un prezioso informatore:
fino a quell'epoca ero già direttore di canto nel
piccolo coro della Basilica di Santa Maria in via Lata al
Corso. Uno dei canonici era Mons. Togni, cerimoniere pontificio.
Chiesi a lui le informazioni che volevo e potei mandare
subito a Puccini ciò che era l'ordine rigoroso in
tali processioni. In quanto al costume degli svizzeri girai
mezza Roma e potei trovare da un rigattiere di Via della
Vite una bellissima stampa a colori che li riproduceva in
modo artisticamente meraviglioso e gliela mandai.
Queste
sue premure gli fruttarono una bella lettera di ringraziamento
di Puccini scritta pochi giorni prima di partire per Roma
pre presenziare alle prove dell'opera.
[Torre
del Lago] dicembre 1899 Caro Pretino, la ringrazio dei figurini
svizzeri e della sua gentile letterina. Speriamo che Tosca
vada bene e che faccia onore al suo autore. Gli amici di
Roma, Vandini, Panichelli, ecc. ecc... spero rimarranno
contenti dell'operato del maestro cuccumeggiante. Dica a
Vandini che meno bataclan faranno intorno alla mia persona
più grato mi avranno. Io dopo le sacramentali tre
recite (se non mi fischiano alla prima) mi rendo latitante
nei boschi che furono asilo sicuro per tanto tempo a Tiburzi
e compagni. Là alle beccacce sfogherò l'ira
venatoria e mi rifarò dei patemi provati in trenta
o trentacinque giorni di prove. Li nel verde, nell'agreste,
nel selvaggio della tanto splendida maremma, ospite di simpatiche
persone, passerò credo i più bei giorni della
mia esistenza. Ma siete matti?! Essere a caccia dove certamente
ce n'è, e dopo un successo! E' il momento vero dell'animo
tranquillo! Ne voglio profittare e mi ci tufferò.
Altro che banchetti, ricevimenti, visite ufficiali!... Io
credo che l'opera avrà un successo hors ligne. Mugnone
ci metterà tutta la sua grande anima di artista nel
concertare e nel dirigere, e tutti i bravi esecutori (già
animati a dovere) faranno mirabilia e daranno tutto. Questa
volta sono in buone mani: impresa, orchestra, artisti e
direttore. Speriamo nel pubblico di Roma e soprattutto sulla
riuscita dell'opera. Al fuoco sulla ribalta vedremo se veramente
l'ho indovinata. Saluti Vandini. A Lei suo aff.mo G. Puccini
Una
volta arrivato Puccini a Roma per le prove di Tosca, il
pretino, forte delle benemerenze acquisite grazie alle sue
"consulenze" e di una certa confidenza col maestro
che gli aveva concesso il "tu", si ritenne in
diritto di assediare l'amato compositore. Sempre presente
alle prove come nel gruppo che accompagnava Puccini al caffè,
non mancava mai ogni sera di fare una visita all'appartamento
di Via Nazionale sopra il Caffè Bezzola dove avevano
preso alloggio Puccini e il direttore d'orchestra Mugnone
con le rispettive consorti. Una lettura fra le righe del
libro di Don Panichelli ci fa venire il sospetto che forse
Puccini non gradisse troppo quello sventolare da ogni parte
della nera tonaca (il sacerdote nel frattempo aveva smesso
il bianco saio domenicano avendo chiesto di essere "secolarizzato").
Tanto più che il pretino era di un'insistenza veramente
eccessiva come quando nonostante il divieto assoluto di
Tito Ricordi, regista dell'opera, che fossero ammesse presenze
estranee in sala alla prova generale chiese a Puccini di
intercedere presso l'editore perché fosse fatta un'eccezione
per lui. «Io non gli dico proprio nulla» gli
rispose Puccini «Diglielo tu, perché un "no"
dato a me (e me lo darebbe senza riguardo) mi seccherebbe
molto; mentre se lo dà a te è questione di
rispondere "grazie lo stesso"». Allora si
rivolse a Mugnone che rispose «Prevete mio, ch'aggia
fa'? Chillo è n'omo invlessibile. Ma vedremo...»
Finalmente poco prima della prova Mugnone disse a Tito Ricordi:
«Ne, Commendatore, o' facimme trasi 'o prevete stasera?».
Una risata generale accolse l'uscita di Mugnone e Ricordi
acconsentì. Ma Don Panichelli, non contento di aver
assistito alla prova generale, fu presente anche alla prima
e a tutte le repliche, che non furono poche, di Tosca. Alla
prima si presentò in abiti borghesi e per questo
fu rimproverato da Puccini: «Pretino, stasera non
hai avuto il coraggio della tua opinione perchè in
una seconda fila di poltrone ho visto due preti... vestiti
da preti molto più eleganti di te. Credi forse d'essere
più bello vestito così? Sei meno simpatico
e francamente non mi piaci». La verità era
che il povero pretino si vergognava della sua vecchia tonaca
e non poteva permettersene una nuova. Allora Puccini e Mugnone,
impietositi, gli dissero di provvedere subito a comprarsi
oltre alla tonaca, cappotto, cappello, scarpe e annessi
e passare il conto a loro. Così Don Panichelli poté
assistere a tutte le successive repliche di Tosca vestito
elegantemente ma da prete. «Se qualche tuo collega"
gli disse Puccini «si meravigliasse della tua improvvisa
metamorfosi rispondi pure, ti autorizzo io, "sono diritti
d'autore"».
Domenico
Carboni
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